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Eugenia Delfini: Perché avete scelto di essere un’associazione non a scopo di lucro? Mario Gorni: Non so fino a che punto fu una scelta. Eravamo un gruppo di artisti e di intellettuali che decidevano di lavorare insieme per mettere in mostra le opere prodotte dagli amici e farne oggetto di discussione. L’associazione era la forma organizzativa più semplice e più vicina alle nostre intenzioni. La mission che avevamo messo a punto portava direttamente a questa soluzione, la forma giuridica non profit era la logica conseguenza degli obbiettivi che ci eravamo prefissati: dare una forma attrezzata e dignitosa alle necessità espositive di artisti milanesi con una ricerca di buona qualità pronta nello studio ma ancora ignorata dal sistema mercantile delle gallerie. Un lavoro che sarebbe morto in assenza di visibilità e promozione. Un lavoro prodotto per la comunità che doveva tornare alla comunità e dichiararsi, confrontarsi. La forma non profit era come il vestito più adatto a compiere la mission, fuori da ogni logica speculativa. Non si voleva vendere nulla, solo salvare una serie importante di energie e di intelligenza che dovevano continuare a vivere. L’attenzione del sistema dell’arte milanese, per quanto sensibile, escludeva l’esubero di ricerche complesse, o troppo giovani, che non potevano immediatamente diventare profittevoli per un’espansione del mercato. Ci sembrava imperasse una sorta di sonnolenza, disattenzione, che poco più tardi identificammo come una vera politica. “Ci sono troppi artisti” qualcuno ci disse, “siete irresponsabili a illudere la gente” ci disse qualcun altro. Ma tirammo dritto, coscienti di metterci la nostra responsabilità e la nostra fatica. Erano i tempi della Brown Boveri, quando gli artisti giovani andavano ad installare opere in grandi spazi industriali dismessi, per misurarsi con lo spazio e “testare” la tenuta del lavoro. In fondo non fummo dei geni a capire quali fossero le necessità del dibattito di quel momento. Trovammo uno spazio adatto a Cusano Milanino, nella periferia Nord della città, lo adattammo alle nostre esigenze e cominciammo. Era il 1987. La risposta degli artisti fu subito copiosa e strabordante, anche i critici giovani trovavano un campo d’azione neutro per poter sperimentare progetti autonomi senza dover fare i conti con le incombenze chieste dal mercato, aria fresca. Non riuscivamo a dare corso a tutte le necessità. Fu così che nacque l’archivio, per il momento era l’accumulo dei progetti da differire nel tempo, una raccolta documentale di idee che chiedevano spazio e attenzione, di fatto erano portfolio, corredati da immagini, disegni, testi, descrizioni e lettere. Costituivano la mappa preziosa della creatività giovanile di Milano. Facevamo tutti sul serio, noi e loro.
Residenze per artisti Careof Docva 2011, Fabbrica del Vapore, Milano
E.D: Sono trascorsi più di vent’anni anni dall’inizio della vostra attività, quali sono stati gli ostacoli più faticosi da affrontare e quali le soddisfazioni più grandi raggiunte?
M.G: Accipicchia, nessuno avrebbe mai detto che avremmo potuto durare tanto! Gli ostacoli… Il denaro per poter lavorare! Facile fare impresa con i soldi, il difficile è riuscire a farla senza! E questa è stata la fatica più grande e quotidiana! Le uniche fonti di finanziamento per l’impresa erano i nostri stipendi. Quasi tutti eravamo insegnanti, quasi tutti precari. Il precariato non è una condizione solo di oggi, ha radici storiche e medievali. Un gotico che dura tuttora. Poi scoprimmo che le leggi e i regolamenti vigenti ci consentivano di partecipare a concorsi e a bandi pubblici per il finanziamento di progetti culturali senza scopo di lucro. Se eravamo davvero non profit, ci venivano riconosciuti dei diritti a giocare, ad accedere a delle risorse pubbliche. Imparammo subito a giocare, e diventammo anche bravi. Se il lavoro che fai è utile alla comunità, devi chiedere alla comunità di riconoscerlo. Capimmo subito che giocare in squadra era più interessante e profiquo che giocare in solitario. Si è più forti, si stabiliscono i ruoli e le divisioni dei compiti, si elimina un concorrente e si partecipa insieme, avvalendosi l’uno delle capacità dell’altro. Decidemmo di concorrere ad alcuni Bandi Pubblici con Viafarini, un’altra associazione che faceva un lavoro simile al nostro. Dopo alcuni anni di sperimentazione e di implementazione del lavoro, il sostegno del Pubblico ci consentì di realizzare una crescita importante nell’organizzazione dei servizi, nella informatizzazione delle raccolte e dei documenti, nel miglioramento delle proposte espositive, coinvolgendo giovani curatori e giovani artisti. Diventammo davvero una palestra e un trampolino con alte prestazioni fino a poco tempo prima impensabili. Gli effetti di manipulite indurì fortemente la collaborazione del Pubblico con il privato. Le coperture dei bandi rispetto ai costi si ridussero fino al 50% del costo dei progetti. Le rendicontazioni necessarie diventavano via via più complesse, i controlli puntigliosi e severi. Cominciò una serie infinita di tagli che dura tuttora e che tuttora ha raggiunto livelli insostenibili. Intercettare nuove risorse nel Pubblico è diventato praticamente impossibile. Oggi gli EEPP sembrano delegare la valutazione e la selezione dei progetti ad enti privati come la Fondazione Cariplo di Milano nei quali poter poi figurare come possibili partner istituzionali, razionalizzando gli interventi e promuovendo direttamente solo i progetti degli Enti Pubblici gerarchicamente dipendenti. Dunque le risorse destinate ai progetti privati, anche se non profit, diventano sempre più regolamentate e rigidamente controllate, l’intercettazione delle quali diventa sempre più difficile selettiva e discontinua. Intercettare opportunità è diventato un mestiere a sé, che oggi occupa troppo tempo sottratto alla programmazione e all’attività continuativa. Sono certo che per affrontare questo problema siano già nate delle agenzie specializzate, e se non fosse così, potrebbe essere un nuovo servizio da inventare.
I goals dell’attività invece sono molti e misurabili. Sono i rapporti personali e di stima instaurati e consolidati con gli artisti che abbiamo aiutato, che sono riusciti a inserirsi professionalmente in un mercato del lavoro così speciale come quello dell’arte. E sono molti, anzi moltissimi. Gli artisti, ma non solo, i critici e i curatori che hanno lavorato per noi e ai quali abbiamo regalato uno spazio autonomo di sperimentazione, accettando progetti difficili, per mettersi in mostra e costruire la propria carriera curatoriale.
Un altro risultato importante è stata la vittoria del concorso per poter usufruire degli spazi all’interno della Fabbrica del Vapore, realizzatasi dopo tanti anni di attesa solo recentemente, e di godere finalmente di una struttura adatta a sviluppare tutte le potenzialità dei servizi gratuiti che forniamo, anche a costo di affitti per noi difficili da sostenere. Ciò ha consentito per esempio l’inizio di un rapporto con le scuole circostanti e l’avviamento di una magnifica attività didattica e laboratoriale con i bambini delle fasce elementari e medie e con le Università, un reale rapporto con il territorio cui fornire formazione e aggiornamento sull’arte contemporanea.
E ancora: il riconoscimento di Archivio storico da parte della Sovrintendenza milanese ai Beni Culturali. Il riconoscimento ufficiale (se può servire a qualcosa) che quello che abbiamo fatto con la raccolta dei nostri documenti è stato fatto bene, ha rispettato tutte le regole scientifiche e catalografiche, è diventato un patrimonio prezioso per la comunità e per questo va tutelato.
E ancora di più: da poco abbiamo avuto in concessione cinque piccoli studi con annessi ateliers per lanciare un programma di residenze per artisti nella Fabbrica del Vapore…Un’altra follia che avevamo messo nel nostro progetto per la Fabbrica…Ora siamo sul punto di concretizzarla davvero, e stiamo lavorando per capire come farla funzionare al meglio. Il progetto è ambizioso, ci piacerebbe fosse un luogo di aggregazione interdisciplinare fra artisti visivi, musicisti, filmmakers, designers ecc, da ospitare e mettere in relazione con i diversi laboratori presenti nella Fabbrica, fare scambi di know how, aggiornamenti, workshop e formazione. Ovviamente il progetto ha bisogno di sostegno, e anche quello lo stiamo cercando…E’ una vera opportunità per portare a Milano eccellenze dall’estero e riuscire magari ad esportare un po’ delle nostre genialità…Chissà, come sempre è una scommessa su cui puntare tutto (o quasi) quello che abbiamo…Ce la faremo?
Comunque è magnifico, no?
E.D: Se venissero regalati 50.000 euro a Careof come li utilizzereste?
M.G: Sono alcuni anni che cerchiamo di realizzare un progetto importantissimo per il DOCVA, centro di documentazione per le arti visive, senza riuscirci. Convertire in files digitali in materiali della videoteca: – per conservarli nello stato attuale – per inserirli nella consultazione diretta da parte del pubblico, dei ricercatori e dei tesisti. Non siamo ancora riusciti a trovare i fondi necessari o a partecipare ad un bando ad hoc. So che prima o poi ce la faremo, ma per ora niente. Penso che dedicheremmo questo magnifico regalo alla realizzazione di questo progetto.
Residenze per artisti Careof Docva 2011, Fabbrica del Vapore, Milano
E.D: Rispetto la produzione e la gestione della cultura nel nostro Paese, pensate sia ancora valido lo statuto nonprofit o credete ci sia bisogno di pensare una nuova forma giuridica formato?
M.G: Non so bene, certo che la forma del non profit è sempre più sottoposta come dicevo prima a grandi difficoltà burocratiche e gestionali, con grandi responsabilità da parte del presidente (che in questo caso sono io) il quale deve rispondere con la propria persona e con i propri beni personali dell’andamento dell’impresa. Vale a dire: se l’impresa va male, devi rispondere personalmente al deficit eventuale. E’ giusto? Non so… Credo che accollarsi questi rischi in virtù di una mission che dovrebbe esercitare il Pubblico ma che di fatto non vuole esercitare, e che per la cecità di una classe politica che abdica ad una qualsiasi politica culturale per le arti visive, lasci tutto senza regole e senza alcuna produzione diretta di opportunità e di servizi nelle mani del volontariato, no non mi sembra giusto. Facile fare impresa senza rischi… Non è giusto ma forse ancora valido, perché tante sono le associazioni non profit nate e cresciute che oggi fanno un lavoro eccellente nelle arti visive su tutto il territorio nazionale, da Torino a Palermo. Certo che per una società che voglia migliorare la vita dei propri componenti, mettere al primo posto la cultura del denaro anziché premiare col denaro la cultura, la giusta risposta sarebbe quella aziendale: fare impresa solo in cambio di denaro. Ma è proprio per questo che stiamo assistendo alla più grande involuzione culturale dal dopoguerra ad oggi, all’esosa avidità di chi gestisce il potere, i padri che non lasciano nulla ai propri figli se non la propria immondezza.
Absence Bulletin, mostra personale di Mauro Vignando, a cura di Chiara Agnello, ottobre 2009, Careof Docva, Milano, photo di Marco Bonvini
E.D: In che maniera secondo voi è possibile raggiungere un effettivo riconoscimento del settore nonprofit da parte dello Stato?
M.G: Per le cose dette, credo che il non profit culturale sia considerato dallo Stato solo un sassolino nella scarpa. Le cose di cui avremmo bisogno non sono molte e facili da elargire, anche in considerazione degli effetti positivi, l’indotto, i posti di lavoro e le tante energie che produce il nostro lavoro: – una razionalizzazione delle sue attività nel merito del contemporaneo, con l’eliminazione di sprechi giganteschi sotto forma di “eventi” troppo spesso monetizzati ma insignificanti e improduttivi. – Una politica meno politicante e più deontologicamente corretta nelle nomine e nelle cariche di responsabilità culturale per le attività e la tutela del patrimonio culturale che abbiamo e che appartiene a tutti – la valorizzazione dell’etica onesta del non profit che garantisce una vera autonomia della produzione culturale da parte dei giovani creativi, sempre in cerca di spazi di confronto e di opportunità – l’edizione di un numero maggiore di bandi mirati alla crescita, alla formazione e all’aggiornamento culturale degli individui cui l’Ente Pubblico sente di dover abdicare per incompetenza, e a cui gli enti non profit possono partecipare attivamente.
Dal punto di vista fiscale invece:
– una riduzione dell’IVA dal 20%, (perché noi l’iva la paghiamo tutta e non possiamo “scaricarla” come fanno le aziende). Una riduzione al 4% come quella degli editori, diminuirebbe i costi che siamo costretti a sostenere.
– la rendicontazione degli importi effettivamente finanziati dal Pubblico e non quella dei costi sostenuti per la realizzazione dei progetti.
– la verifica vera e non solo contabile dei progetti culturali che sono stati effettivamente realizzati.
E.D: Quale consiglio dareste, da associazione nonprofit, ad una giovane organizzazione?
M.G: Mah, forse ho già risposto…Resistere, comunque, e inventarsi la propria strada.
In copertina: Public Improvisations, a cura di Luca Cerizza e Anna Daneri, dicembre 2008 – gennaio 2009, Careof Docva, Milano
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