Agli stranieri si richiede creatività, ma spesso fine a se stessa, e i ritmi frenetici ricadono sulla qualità del costruito


Negli ultimi tre anni, la Cina ha dato ospitalità ad un numero sempre più crescente di architetti e designer stranieri in fuga dalla crisi economica, che puntano sulla crescita esplosiva di questo Paese. D’altronde, si tratta della nazione dove l’istituto di statistica, McKinsey Company, prevede che saranno costruiti 50.000 grattacieli nei prossimi due decenni, l’equivalente di 10 New York. Lo studio di design, Mad, ad esempio, nel 2009 dava lavoro esclusivamente a cinesi continentali. Oggi metà dei suoi dipendenti sono stranieri provenienti da Olanda, Germania, Belgio, Spagna, Colombia, Giappone e Thailandia.

La crisi economica ha stravolto le carte in tavola. Se fino a pochi anni fa erano le aziende occidentali ad assumere i giovani lavoratori cinesi, oggi sono le aziende cinesi a dare lavoro agli occidentali. Ancor più sorprendente è il grado di licenza creativa che la Cina concede, anzi, pretende dai designer stranieri. Con città che si materializzano da un giorno all’altro – le chiamano ista-città, città istantanee, dai prati all’alta densità abitativa in meno di due anni – gli architetti internazionali sono liberi di pensare in grande, sperimentare le più moderne forme di design e introdurre tecnologie sostenibili e innovative. Il tutto ad un ritmo frenetico. Grazie ad un rigido sistema top-down che favorisce la volontà politica tramite il controllo stringente del dibattito pubblico, i progetti su grande scala in Cina diventano realtà nel giro di pochi anni.

Il lavoro del designer, inoltre, è molto diverso rispetto ai canoni occidentali. Il ritmo è elevatissimo e implacabile. Un progetto concettuale su grande scala deve essere pronto in pochi giorni. In termini di pura produzione, il personale locale può lavorare più velocemente e più efficacemente di qualsiasi altra cosa si sia mai vista in Occidente. La creatività, invece, è compito degli stranieri, ma non è così facile accontentare i committenti. Il mantra è sempre lo stesso: più grande, più audace, più vistoso. La questione è se la Cina possa innovare e andare oltre il suo ruolo di fabbrica del mondo. In architettura, il problema non è semplicemente legato al sistema educativo che impone le competenze tecniche a discapito del pensiero creativo, ma anche alla pressione che costringe i designer a creare rapidamente e nel modo più redditizio possibile. Spesso i risultati sembrano uscire con lo stampino e rendono le città cinesi tristemente simili. La creatività richiede tempo e in Cina il tempo è un lusso che nessuno si può permettere. 

Le preoccupazioni principali qui sono il prestigio e lo sviluppo, la maggior parte delle volte fini a se stessi. Un architetto straniero ha definito i progetti cinesi le borse Luis Vuitton dell’architettura. Cosa succederebbe se l’ambiente sociale, culturale ed economico si dimostrasse incapace di sostenere tutti questi progetti d’avanguardia dopo che sono stati costruiti? gli stranieri non sono pagati per farsi queste domande, non devono preoccuparsi del futuro dei loro edifici, ma solo di costruirli nei tempi richiesti. A volte non si devono neanche preoccupare di costruirli. Mayer, un architetto americano di istanza in Cina, ha dichiarato che nessuno dei suoi concept è mai stato costruito. I clienti usano il suo lavoro per impressionare i funzionari statali nella speranza di vincere una gara o di acquistare dei terreni per un progetto futuro (In Cina, tutta la terra è di proprietà dello Stato). Mayer ritiene il suo lavoro più una questione di marketing che di architettura.

L’esperienza di Mayer non è universale. Ma a molti architetti stranieri in Cina sembra di operare al buio, lavorando duramente per un sistema che capiscono molto poco. D’altronde lo sviluppo immobiliare cinese è un affare torbido, con poca trasparenza in tutte le sue parti, dall’acquisizione dei terreni all’assegnazione dei concorsi. E più è alto il profilo dei progetti, più gli stranieri sono messi da parte durante il processo di costruzione, che per legge deve essere svolto esclusivamente da imprese locali.