Per chi conosce il suo lavoro e il suo pensiero, ispirati a un’architettura e a un design «funzionali» e «sociali», potrebbe sembrare un paradosso che Cini Boeri, architetto milanese che ha mosso i primi passi sotto la guida di Gio Ponti e Marco Zanuso, questo pomeriggio al Cersaie discuterà con lo scrittore americano Bruce Sterling di «Design che si trasforma in fantascienza». Ma con l’energia che da 60 anni caratterizza il suo impegno professionale, l’architetto non si è tirata indietro, e con un sorriso ricorda che, in effetti, il suo bicchiere Cibi, disegnato per Arnolfo di Cambio nel 1973, comparve tra le mani di Harrison Ford quasi dieci anni dopo, sul set di «Blade Runner».
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La creatività sociale di Cini Boeri
Forse il design condivide con la fantascienza la forza di una visione, della creatività che dà vita a un nuovo progetto?
Forse: per me fare design, così come si pensava negli anni 50, significa disegnare un oggetto che prima non esisteva, di cui le persone hanno bisogno, ideato con materiali e forme adatti a produrlo in serie e venderlo a un prezzo accessibile.
Eppure oggi il termine design indica spesso prodotti eccentrici e costosi.
È vero, molti progettisti realizzano prodotti concepiti come opere d’arte. Ma è un’idea che non condivido. Per me il design ha un valore sociale, serve a creare qualcosa di utile alle persone. Nel mio lavoro di designer, come in quello di architetto, sento la necessità di dare vita a progetti funzionali e alla portata di tutti.
È questo il significato di quelle «dimensioni umane dell’abitazione» che lei ha teorizzato in un suo famoso libro?
Sì: tutto quello che si produce deve rispettare la dimensione e i bisogni delle persone che se ne serviranno. Senza per questo rinunciare alla creatività. Che io lavori a un progetto di architettura, di un mobile o di un oggetto, mi ispiro sempre a questa idea di fondo. Così è nato ad esempio il Serpentone realizzato per Arflex, un divano che si poteva vendere a metro, quindi a prezzi accessibili e adattabile a spazi diversi. Oppure la sedia Folio per Rosenthal, pensata per essere smontata e trasportata con facilità e costi ridotti.
La crisi sta riportando l’attenzione a un design più funzionale e accessibile?
Purtroppo non ho questa sensazione. Dove c’è più cultura sì, ma mi sembra che il livello culturale del nostro Paese stia precipitosamente scendendo: i clienti non sanno e quindi non chiedono le cose giuste; i produttori commissionano quello che vende di più e i progettisti fanno quello che viene chiesto, rispondendo alla propria coscienza, spesso guidati da un eccesso di protagonismo. Così predominano progetti di design e architettura stravaganti, favoriti anche dalla mancanza di piani regolatori e controlli nelle città.
Quindi lei è d’accordo con chi critica gli eccessi di alcuni suoi colleghi?
È sempre una questione di educazione, di cultura, che comincia sui banchi di scuola, ben prima delle facoltà di architettura. Bisognerebbe trasmettere agli studenti meno sicurezze e più desiderio di conoscere il mondo e il proprio passato, la propria storia. Così si possono realizzare con intelligenza anche idee stravaganti. Prenda il Museo Maxxi progettato da Zaha Hadid la cui architettura è spesso avveniristica e inusuale: qui a Roma non disturba il contesto in cui sorge e l’interno è funzionale allo scopo espositivo.
Rispettare i criteri di utilità, funzionalità e riproducibilità non rischia di limitare la creatività dei progettisti?
No, ci sono ancora molte cose nuove da fare. Io lavoro da tanti anni eppure ho ancora diverse idee che vorrei realizzare. Ad esempio sto progettando una scuola, che nessuno mi ha commissionato. E nell’edilizia, soprattutto in quella popolare, ci sarebbe moltissimo da rivedere. Spesso, poi, le idee più semplici sono straordinariamente innovative. Penso al telefono Grillo di Zanuso (Compasso d’Oro 1967, ndr) o al Moscardino di Ragni-Iacchetti (un cucchiaio per aperitivo, Compasso d’Oro 2001, ndr): sono semplici, utilissimi e anche belli. Perché la bellezza viene da sé, quando si usano i materiali giusti e le forme adeguate.
Le nuove tecnologie aiutano?
Molto, perché rendono più semplice e ampia l’applicazione di materiali anche comuni. E noi architetti dovremmo essere più riconoscenti alle tecnologie e meno presuntuosi.
Al Cersaie protagonista è la ceramica: come architetto ne consiglierebbe la scelta ai suoi clienti?
Sì, se viene trattata con intelligenza, servendosene come elemento componibile per dare vita a disegni eleganti e originali. Cosa che in passato ho proposto ai miei committenti. La mia prima piastrella, che combinava pezzi di colori diversi in grado di unirsi nascondendo le fughe (le linee di congiuntura, ndr), ha vinto anche il premio Piastrella d’Oro nel 1966. E oggi, grazie ai nuovi formati, più sottili, versatili e flessibili, le potenzialità di questo materiale stanno aumentando.
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