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pubblicato martedì 7 febbraio 2012

È il momento del designer-artista. Il fenomeno è alla ribalta, esplorato da esposizioni museali, dibattiti e negli appuntamenti commerciali internazionali: per l’edizione di fine gennaio 2012, gli organizzatori del salone parigino dell’arredamento Maison Objet, che si è tenuto dal 20 al 24 gennaio, hanno scelto come testimonial dei tre settori espositivi i fratelli Campana, Tokujin Yoshioka e Hubert Le Gall, creativi nella cui opera arte e design si alternano o si compenetrano.

In occasione di questo appuntamento, tutti e tre hanno dichiarato che il design ha più a che fare con le emozioni che con le forme o l’utilizzo. Un paradosso, se si sta all’idea comunemente accettata secondo cui il designer progetta oggetti funzionalmente ed esteticamente validi, mentre la necessità di esprimere emozioni, concetti, provocazioni è propria dell’artista.

Come mai allora si verificano commistioni tra i due? È una sorta di piano B del designer ai tempi della crisi delle committenze, come dire “se non riesco a far produrre i miei progetti, forse vendo le mie creazioni artistiche”? Oppure il designer si fa artista contro il conformismo asettico del “buon design” industriale per tentare di infondere più anima negli oggetti?

In realtà, l’ibridazione non nasce oggi. Già nel passato artisti e designer hanno travalicato i reciproci confini nelle alterne vicende dell’era industriale, nelle fasi di crisi e in quelle di boom economico. Nel XX secolo l’oggetto – soprattutto di arredamento – ha servito spesso l’espressione creativa, la critica sociale, la provocazione antifunzionalista, la polemica anti-design tout court, anziché tentare di essere bello ed utile. Gli esempi sono tanti. Da Dalì che nel 1936 crea la sedia Hands a Bruno Munari che nel ’45 con la “Sedia per visite brevi” ironizza sulla frenesia moderna. Poi negli anni Cinquanta, Piero Fornasetti ispira il successivo movimento dell’Anti-Design italiano, un decennio dopo Gaetano Pesce esplora le relazioni ambigue tra l’arte e la produzione industriale, mentre le creazioni di Allen Jones sono più sculture pop che oggetti di arredamento, e altri designer si organizzano in gruppi di Radical Design. Nel 1973 Riccardo Dalisi e Alessandro Mendini fondano il Global Tools “per favorire il libero sviluppo della creatività individuale”. Negli opulenti Anni Ottanta Studio Alchimia, Memphis e critici europei del modernismo come Charles Jencks esprimono il momento migliore dell’Anti-Design. Tom Dixon dà vita ad esibizioni di performance art e Borek Sipek dichiara limitante attribuire eccessiva importanza alla funzionalità degli oggetti di design.

Poi, all’inizio degli anni Novanta arrivano le prime opere di Fernando e Humberto Campana. Nella loro esposizione dell’ ‘89, le sedie Desconfortáveis (Scomode) oltre ad interrogare l’arte, l’errore e la poesia, lanciano una chiara provocazione anti-design, dichiarando che «impiegare anche due giorni per produrre una sola sedia è positivo: si recupera la gestualità». E come i movimenti radicali che negli Anni Settanta e Ottanta si opponevano al Good Design, affermano di voler «portare un po’ di cattiveria negli oggetti».

Tutto fa pensare, quindi, che certi principi dell’arte contemporanea siano penetrati nel mondo del design, almeno da quando il mito della società industriale comincia a vacillare, ma non si tratta di una faccenda élitaria, perché trova il suo riscontro di mercato. Anche oggi gli analisti delle tendenze di consumo individuano una domanda diffusa favorevole a questo indirizzo.

Secondo l’indagine appena prodotta dall’Osservatorio di Maison Objet, «il design non è più unicamente una faccenda di estetica industriale, ma si sviluppa secondo una pluralità di scritture che rispondono al bisogno collettivo di individualizzazione».

Nel marzo 2008, nel suo intervento in “Esperienza e Consumi: occasioni di meraviglia e sorpresa”, Francesco Morace, sociologo e presidente di Future Concept Lab, valuta che «una relazione non-convenzionale tra il mondo del bagno e quello del design e dell’arte è fondamentale per la realizzazione di progetti che invoglino le persone ad esplorare maggiormente questo settore, e di conseguenza vivere le loro case in modo più spontaneo e creativo».

Da parte loro, molte aziende hanno intuito da tempo l’esistenza di una domanda di questo tipo nei nostri mercati occidentali, non a caso i designer citati hanno trovato produttori per i loro oggetti anticonvenzionali, difficili, perlopiù costosi e da edizione limitata. Spesso premiati da successi di vendita e valorizzazione dei prodotti nel tempo. Anche qui un po’ di storia viene in aiuto. La scomoda sedia Singer di Munari, industrializzata da Singer nel 1945, dal 1991 viene riproposta da Zanotta. Il design antiseriale di Gaetano Pesce è prodotto da aziende come CB Italia, Cassina, Bernini, e la sua lampada da parete Canovacci per Venini è battuta all’asta per 97.000 dollari da Philipps de Pury New York nel 2007. Il post-design di Ettore Sottsass viene realizzato con Memphis e da aziende come Zanotta, Venini, Numa. La sua suite di cinque totem monumentali Flavia prodotta da Flavia Bitossi Italy è battuta all’asta da Tajan Paris a 110.923 euro nel 2008. I Fratelli Campana si autoproducono o realizzano i loro oggetti con aziende quali Edra, Alessi, Fontana Arte, Grendene. Nel 2006 la poltrona Black Iron è battuta all’asta da Tajan Paris per 36.996 euro, e a settembre 2011, in piena crisi, Philipps de Pury London vende una loro poltrona Banquete per 31.250 sterline.

Se il crossover arte-design percorre la nostra epoca, se diventa sempre più globale, se i risultati culturali ed economici sono questi vuol dire che il mondo in cui viviamo ne ha decisamente bisogno. E che le distinzioni convenzionali di arte e di design sono destinate a sfumare ulteriormente.


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