Il padre della catena di oggetti per la casa e l’ufficio che ha conquistato il mondo con una rete di 500 negozi. Un impero basato su piccole cose firmate a prezzi accessibili. Ora vuole vendere l’arte con formule low cost
di PAOLA JADELUCA
Non c’è fotografia che non lo ritragga sorridente, giocoso: dentro un carrello della spesa; mentre gioca a ping pong, oppure, paradossalmente, con una racchetta minuscola in mano; e poi rannicchiato dentro uno scaffale. Non è una posa. Lennart Lajboshitz è proprio così, di natura. Allegro, sempre, come la catena di negozi che ha fondato e diffuso nel mondo, Tiger e che si stanno moltiplicando a ritmi vertiginosi: si contano 3 nuove aperture a settimana. Tiger significa tigre, ma non c’è nulla di aggressivo nel modello di business di questo gruppo, se non il fatto di essere riuscito a fare presa nei mercati più differenti, dalla Danimarca – dove è nato – alla Spagna, dagli Usa al Giappone. Tiger in danese, dove la g fra vocali vira verso la j, suona come tier, dieci nella lingua di Amleto. Dieci, il prezzo fisso di partenza di ogni oggetto che trovi nei negozi. Dieci corone sono al cambio attuale poco più di 1 euro.
E’ il cuore delle strategie di gruppo, il tutto a “un dollaro” ma declinato alla danese, con il design che plasma e trasforma il più piccolo degli oggetti in un complemento d’arredo anche per la scuola e l’ufficio: dalle mollette per stendere all’innaffiatoio, dalla spillatrice in legno al portaspazzolino, dalla lampadina al neon al portapenne. Tutto ricorda Ikea, il big svedese che ha reso accessibili a tutti gli arredi di design. E infatti lo chiamano tutti l’anti-Ikea. Ma si tratta di un business un poco differente. “L’aspetto
innovativo di Tiger, in realtà, è la filosofia del design democratico applicato alle piccole cose, con tutta una forte componente gioiosa, di divertimento, di colore che stimola lo spirito da ragazzo che è in tutti noi, piccoli e grandi”, spiega Armando Branchini, docente alla Sda Bocconi, vicepresidente della Fondazione Altagamma, attento osservatore dei nuovi fenomeni di moda.
Alla cassa di uno dei negozi una signora un po’ agée paga un paio di occhiali da vista, verdi e neri: 4 euro, con la garanzia Ue; un giovane in carriera, con una tastiera per Ipad, 30 euro, quasi meno della metà di quelle che si trovano in uno store di elettronica; poi una mamma con il figlioletto che fa i salti di gioia perché potrà organizzare una festicciola allegra per il suo compleanno con i festoni e tutta una serie di stoviglie di carta e divertenti gadget che non si sarebbe mai sognato di poter comprare. E anche chi non compra, ne esce comunque soddisfatto, contento. Decomprime lo stress, un’ora di pausa relax dall’ufficio, uno spasso: sui social network è un coro. “Quando vado in un discount mi sento povero, quando vado in un negozio Tiger mi sento milionario” è il mantra che si sente ripetere da tutti i consumatori dei 26 paesi dove la catena è al momento presente con circa 500 negozi.
Presto diventeranno di più. Il gruppo galoppa e solo nel 2014 ne ha aperti 122. E ha già in cantiere nuove aperture tra Nord America e area del Pacifico. L’Italia è terzo mercato del gruppo. Solo a Roma si contano 13 negozi e altri 6 sono sulla rampa di lancio. Cinquantaquattro anni, una moglie, direttore creativo, e quattro figli, tutti occupati in azienda in diverse mansioni, Lennart Lajboschitz è un uomo d’affari hippy, come lo descrivono tutti. Non di aspetto, ma per quella dose di ottimismo e capacità di accettare ogni giornata come viene, di scomporre ogni schema, tipica degli anni della contestazione giovanile. Gli anni di Elvis Prisley e Neil Young, dello scanzonato inno all’amore e all’amicizia di “Aux Champs Elysées”: appunto alcune delle musiche di sottofondo negli store di Tiger, tutte uguali, anche queste parte integrante delle strategie commerciali del gruppo. Un tuffo nel passato. Ai tempi che hanno permeato l’infanzia e l’adoloscenza di Lajboschitz. Figlio di un ebreo polacco, venditore di asparagi, e di una maestra d’asilo svedese, Lennart è venuto su a pane e democrazia, quando la Danimarca stava gettando le fondamenta del welfare sociale di cui è diventata un modello. “Quello che si insegnava a un bambino allora – ama raccontare – era l’autostima: non è una cosa che si impara, ma è esprimere se stessi”. In un paese “orizzontale”, dove fare l’uomo delle pulizie vale crediti per accedere all’università, non stupisce che Lajboschitz abbia terminato presto gli studi per andarsene in giro zaino in spalla. A 20 anni aveva dato via al suo primo business, insieme alla moglie Suzanne: riparare e vendere ombrelli usati nei mercatini delle pulci. Il fiuto per gli affari lo manifesta subito, quando inizia a vendere anche occhiali da sole, per fare business con ogni tempo. Ma quello che racconta, sempre, è: quanto si divertiva. S’è sempre divertito, la chiave del successo. La parola competizione non fa parte del suo vocabolario. E piuttosto che un retailer, preferisce definirsi “un antropologo”: “Mi piace studiare la gente, capire cosa può renderla felice”, ha dichiarato al magazine inglese EveningStandard.
All’inizio si chiamava Zebra, il nome che ancora oggi ha la capogruppo. Il quartier generale è a Copenhagen, a Rådhuspladsen, la piazza del municipio, il principale snodo commerciale della capitale danese. Ma il primo seme del gruppo è stato gettato a Borholm, l’isola del nord famosa meta di vacanze. Qui nasce il primo negozio e la prima formula del prezzo tondo, nel 1995. E’ subito un successo e l’anno dopo apre il primo store di Copenhagen. Un negozio tira l’altro, e in tre anni già se ne contavano 40. Poi la via dell’estero. Il primo store fuori dai confini di casa è stato aperto in Islanda. Una scelta casuale: “Volevamo visitare quell’isola e cercavamo un pretesto per farlo”, racconta a EveningStandard. Due anni fa Laiboschitz ha venduto il 70% dell’azienda al gruppo svedese di private equity Eqt per circa un miliardo di corone danesi, il corrispettivo di 134 milioni di euro. Lennart e sua moglie, ormai milionari, vivono a Hellerup, elegante comprensorio sulla cosiddetta costa d’oro, a Nord di Copenaghen, dove sorge il Royal Yacht Club e la vecchia fabbrica della Tuborg oggi divenuta un mall di lusso. Il gruppo Eqt ha annunciato che è prossimo all’Ipo, la quotazione in Borsa. Ma Lennart mantiene il timone del business. Non fosse altro per la sua naturale inclinazione a intercettare i nuovi trend. Anzi, sarebbe meglio dire a crearne di nuovi.
Già diversi anni fa, per esempio, ha dato vita a una sua etichetta musicale, per dare visibilità, sempre secondo la sua filosofia industriale, a gruppi sconosciuti ma validi. I Cd vengono venduti esclusivamente nei negozi Tiger. E’ cosi che è riuscito a lanciare i Lezmofobia, nato come gruppo di musica folk ebraica, grazie ai negozi Tiger nel Sol Levante, si è fatto conoscere e infine invitato a tenere un concerto al Tokyo Jazz Festival. La band, grazie ai suggerimenti di Lajboschitz, ha anche cambiato stile e oggi richiama folle ai suoi concerti in Danimarca. Per assurdo è proprio in Danimarca e in Giappone che il gruppo Tiger, secondo quanto riportato da Boersen, il quotidiano finanziario danese, incontra oggi qualche ostacolo alla sua espansione. E’ un fatto di immagine, riporta Boersen: in Danimarca si porta dietro il retaggio del passato e non riesce ad affermare il brand in tutto il suo valore. Lo stesso in Giappone, ma in quel paese per diversità culturali. Per superare questo gap Lajboschitz ha imboccato una nuova strada: un’alleanza con la Danish National Gallery per vendere una borsetta da shopping con l’immagine dell’esibizione in corso per 50 corone, compresi due biglietti d’ingresso. Un pacchetto che normalmente costerebbe 270 corone. La partnership funziona a doppio senso: Tiger lega il suo nome alla più alta istituzione culturale danese. E la Gallery raggiunge un pubblico che altrimenti non riuscirebbe a sensibilizzare. Un’altra partnership è con Charlottenburg, la exibition hall a Nytorv: l’obiettivo è incrementare di 50.000 l’anno il numero dei visitatori.