«Sono un timido, non mi piacciono gli oggetti che gridano, per questo alla fine progetto cose semplici». Rodolfo Dordoni dal suo studio milanese non si trova a proprio agio a speculare su qualcosa su cui forse c’è poco da dire. Ovvio: un rubinetto deve essere semplice. Per lui il design è minimalismo, linearità e pulizia, e un progetto come il miscelatore Levante, disegnato per Fantini, non può che avere un aspetto rassicurante. Al Salone del mobile quest’anno porta nuovi divani per Minotti, un tavolo da pranzo per Roda, una camera da letto per Flou e borse per Poltrona Frau. Per l’arredobagno ha progettato anche una collezione per Salvatori. «Il bagno è la stanza dell’intimità, dove ci spogliamo e ci muoviamo in totale agio. Quando immagino questo spazio penso alla rotondità, alla morbidezza delle superfici. Non farei mai qualcosa di spigoloso per una stanza così personale».

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I rubinetti di Dordoni per Fantini

I rubinetti di Dordoni per Fantini

Il rubinetto Levante come è nato?

Fantini non voleva manopole, hanno chiesto un miscelatore. Per me l’istinto è stato chiudere gli occhi e pensare di toccarlo. Per prima cosa mi sono concentrato sulle sensazioni tattili, poi ho disegnato. Ergonomia e morbidezza sono il concept di riferimento.

Lei predilige committenti italiani, come mai?

Perché sono professionisti con cui sono certo di condividere una grande passione. Gli italiani mettono l’amore per questo lavoro davanti a tutto, specialmente quando si tratta di aziende con una tradizione familiare, dove ci si relaziona con le persone più che con i ruoli. La fascinazione per un’idea viene prima persino del profitto.


Si ricorda la sua prima volta al Salone?

Era il 1979, appena laureato. È stata una grandissima emozione. Il Salone mi ha sedotto. All’epoca non avevo ancora ben chiaro se avrei fatto il designer, si usciva dalla facoltà di architettura pensando di lavorare come architetti, mancava una cultura del design come settore a sé. Mi trovai immerso in un mondo di prodotti che influenzò il mio percorso. Nei successivi trent’anni sono tornato sempre volentieri, ho stretto legami con industriali e professionisti con cui condivido una passione speciale. Per me è ancora un grande aggregatore di energie positive.

Come è cambiato il ruolo del design nella nostra vita?

Il pubblico è ormai critico e consapevole. La cultura del design è radicata e le persone sanno scegliere e orientarsi. Nella scelta degli oggetti di uso quotidiano ognuno di noi ha davanti un mare di possibilità. Mezzo secolo fa il design era considerato marginale, qualcosa per pochi.

La formazione è cambiata di conseguenza?

Quelli della mia generazione si sono fatti le ossa sul campo: andavamo all’università, poi entravamo negli studi, ci formavamo professionalmente in tanti settori specifici dell’architettura. Ho imparato a gestire tutti gli aspetti di un progetto, compreso il lato commerciale e distributivo, fino alla comunicazione. Oggi invece esistono scuole specifiche, focalizzate solo sul design.

A quali progetti vorrebbe dedicare più attenzione?

Sono appassionato di cucina, ho realizzato già pentole e accessori. Mi piacerebbe ora lavorare con vetro e porcellane, mettermi in gioco per vedere come mi riesce. Sarebbe una bella sfida perché è un mondo a cui tengo davvero in modo particolare. Sono cresciuto in una famiglia in cui la convivialità a tavola è stata un valore fondante. La cucina è la stanza in cui tuttora passo la maggior parte del tempo quando sono in casa. Adoro ricevere gli amici. Anche qui non farei mai qualcosa di scioccante, il mio gusto è sempre tarato su minimalismo ed essenzialità.

Se non avesse fatto il designer, quale strada avrebbe scelto?

Ci penso ogni tanto, e non riesco mai a contemplare alternative. Dopo le scuole medie ero convinto di voler fare il liceo artistico. Mia mamma mi portò all’Accademia di Brera, ma non mi presero perché non avevo una media abbastanza alta. I miei non riuscirono a convincermi a rinunciare a quel percorso. Li costrinsi a iscrivermi a un liceo artistico privato.

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